Le rinunce di una mamma
Le rinunce di una mamma
Seduto dinanzi alla macchina portentosa del pc, cerco un incipit sintetico ed efficace per descrivere
mia madre e la prima cosa che mi viene in mente è la grande quantità di sacrifici e di rinunce che lei
dovette sopportare per amore dei figli. In particolare racconto un episodio significativo della sua vita.
In questo momento è per me come stare dietro a una palizzata: c’è una fessura, mi avvicino e rivedo
il mondo dei ricordi. Sono proiettato all’indietro nel tempo, osservo fatti e circostanze che
sembravano scomparsi ma in realtà erano solo archiviati in un angolo della memoria prodigiosa del
mio cervello.
Mia madre, nata nel 1926 in un ambiente contadino, di tipo patriarcale, alla periferia di una grande
città calabrese, seconda di quattro sorelle, sin da piccola dovette fare i conti con la malasorte,
rimanendo orfana, all’età di quattro anni, della mamma, morta a causa di complicazioni durante il
parto della quarta figlia.
Venne così allevata dal padre con l’aiuto di alcune zie sino a quando il genitore, otto anni dopo,
convolò a seconde nozze con una brava donna, da cui ebbe altri cinque figli. Infanzia e adolescenza
vissute quindi con grandi disagi, nonostante la buona volontà dei parenti. Ne risentì la sua educazione
scolastica, ridotta ai minimi termini, quasi al limite dell’analfabetismo. La vita scorreva tra la casa e
la campagna dove lei, assieme alle sorelle, veniva impiegata in tutti i lavori, uniche forze per
coadiuvare il padre, che per lungo tempo fu l’unica risorsa maschile della famiglia.
Quando ebbe diciannove anni, un giovanotto di quattordici anni più grande di lei ebbe il coraggio di
presentarsi al padre per chiedergli il permesso di sposarla. Era un pomeriggio di fine estate del 1946.
La guerra era terminata da poco e la povertà era diffusa. Mia madre e le sorelle seguivano a piedi il
padre, rientrando dalla campagna, portando sulla testa ceste di frutta e verdure. La reazione di mio
nonno, uomo tutto d’un pezzo, fu prima brusca ed adirata perché temeva di avere a che fare con
perditempo pericolosi per le figlie. Poi dinanzi agli argomenti di quell’uomo, persona seria e titolare
di un buon impiego fisso nel tribunale locale, mio nonno cedette e diede l’assenso alla frequentazione
sotto strettissima sorveglianza: erano ammessi solo sguardi da lontano, e basta. Tre mesi dopo fu
celebrato il matrimonio. A mia madre sembrava di vivere un sogno. Finalmente aveva una casa,
piccola ma tutta sua. Non doveva levarsi all’alba per andare in campagna a lavorare. Aveva un marito
che le insegnava tante cose che non aveva potuto apprendere durante la sua adolescenza.
Undici mesi dopo, una tragedia: nacque il primo figlio, un bel bambino nato morto, purtroppo, per
incuria della levatrice.
Undici mesi dopo nacqui io che sto scrivendo. Mi seguirono altri due fratelli.
La vita trascorreva serena e con dignità. Mio padre aveva trovato un impiego amministrativo migliore
in una azienda di trasporti, mia madre, casalinga parsimoniosa, attenta alle esigenze di noi figli gestiva
alla meglio le poche risorse disponibili. La famiglia godeva della simpatia e dell’amicizia dei vicini
di casa.
Ma un giorno accadde un fatto molto grave: mio padre si ammalò gravemente. Per una forte colica
addominale venne ricoverato d’urgenza per essere operato di appendicite. Gli dissero che in due
settimane sarebbe guarito. Invece non guariva, continuava a stare male, la ferita non si rimarginava.
Venne ricoverato in un altro ospedale, rioperato e fu scoperta la presenza di un tumore in fase avanzata
all’intestino. A quell’epoca, negli anni sessanta, non esistevano cure per quel terribile male, per cui
mio padre fu rimandato a casa tra la disperazione di noi tutti. Sei mesi dopo morì.
Ma madre, rimasta vedova giovanissima (aveva 34 anni) con tre bambini da allevare, prese la
decisione di trovare una qualsiasi occupazione per assicurare il pane ai figli. Il suo grado di istruzione,
quasi nullo, non l’aiutava. Cominciò coraggiosamente a bussare a tante porte. Ebbe tanti rifiuti e tante
umiliazioni. Si iscrisse ad una scuola serale per acquisire almeno la licenza elementare. Si mise a
studiare con tanto impegno e grandissima buona volontà riuscendo ad ottenere il titolo di studio.
Questo le permise di svolgere lavori umili in aziende di servizi per uffici pubblici e privati.
Era molto attenta ai figli. Da quando era rimasta vedova sentiva ancora di più la responsabilità della
loro cura. Voleva a tutti i costi che essi studiassero ed ottenessero un buon titolo di studio per il loro
futuro. Giovane e piacente, rifiutò diverse proposte di matrimonio, volendo rimanere fedele al primo
amore.
Dopo tanti tentativi e tante traversie riuscì a trovare un’occupazione provvisoria come bidella in una
scuola comunale. Portava a casa un modesto salario che sufficiente per le esigenze primarie della
famiglia.
Un giorno purtroppo la malasorte tornò a bussare alla sua porta. La donna si ammalò di
broncopolmonite. Faceva tanta fatica ad uscire presto alle sei del mattino per andare a lavorare nei
locali che le erano stati assegnati. La malattia la rendeva molto debole. A nulla valevano i consigli
del medico di starsene a casa, a riposo, per non peggiorare le cose. Non poteva permetterselo. A lungo
andare avrebbe perso il posto di lavoro e non avrebbe potuto assicurare il pane ai propri figli, ancora
piccoli, studenti di scuole elementari e medie.
Incurante dei consigli, consapevole del rischio che correva di mettere a repentaglio la propria vita, lei
decise di andare avanti, disposta a rinunciare anche alla sua vita pur di sapere i propri figli al sicuro.
Così fece con caparbietà di madre coraggiosa, continuò a lavorare benché ammalata. Le andò bene:
vinse lei, guarì ed ebbe la soddisfazione di vedere crescere noi figli, seguire le nostre carriere, assistere
ai nostri matrimoni, ad abbracciare i nipotini.
La sua vita intensa, piena di contrasti, di dolori e tante gioie, si concluse a 78 anni nel 2004, ma il suo
esempio di amore, di coraggio, di rinunce illumina ancora oggi costantemente la vita di noi figli.
Francesco Grano
Novara, aprile 2021
Il racconto è stato incluso nell'antologia "A mia madre" di autori vari, edito da Apollo Edizioni