Giuditta - una ragazza casual

GIUDITTA – una ragazza casual

Romanzo di FRANCESCO GRANO

PROLOGO

Qualche tempo fa ebbi l’occasione di conoscere una giovane signora, Giuditta, che abitava nella mia stessa via, con cui nacque un buon rapporto di amicizia. La stessa mi espresse il desiderio, un giorno, di parlarmi di sé e della sua storia, ritenendola interessante, meritevole di essere inserita in uno dei miei lavori. Difatti lo era e così ritenni di raccogliere le sue confidenze, che vi trascrivo così come mi sono state riferite.

CAPITOLO 1

Presentazione

Mi chiamo Giuditta, ho 28 anni e vivo a Novara. Nonostante la mia giovane età, la mia vita sembra un film contenuto in una pellicola di celluloide o nel file di un computer. Preferisco pensare all’immagine di un treno. Sono salita su un convoglio che mi ha portato in luoghi diversi, alcuni belli e altri meno belli, vivendo esperienze e passioni molto forti: ve le racconto, vi spiego come si possa vivere un’esistenza del tutto normale e come si possa finire in un vortice veloce e molto pericoloso, capace di inghiottirti, di trascinarti a fondo senza speranza di risalita, quando all’improvviso… accade qualcosa che cambia la vita.

Era una fredda e umida giornata di febbraio di qualche anno fa, una di quelle giornate che sarebbe stato più confortevole trascorrere accoccolate nel proprio letto, sotto le coperte, quando, richiamata dagli impegni di lavoro, verso le nove e mezzo del mattino pensai bene di infilarmi nel centro commerciale di Novara per consumare qualcosa di caldo al bar. Fuori c’erano due o tre gradi, un cielo nuvoloso e una fastidiosa umidità, all’interno del centro commerciale invece venti gradi in più. Ero bardata come se dovessi andare in missione in Lapponia. Entrai nel bar e con una rapida occhiata scelsi l’angolo giusto, poi cominciai a levarmi il giubbotto di piuma d’oca, il cappello di lana con copri orecchie, la sciarpa tripla. A stento trattenni gli stivali! Sedetti a un tavolino con vista sull’esterno e, dopo una sbirciata allo smartphone per controllare le notifiche di Facebook che giungevano a ripetizione, mi misi a riflettere su cosa ordinare: caffè? Già preso da poco, meglio aspettare. Un tè? Non mi va. Cappuccino? No, ho già fatto colazione a casa. Alla fine mi decisi: una bella cioccolata calda con due biscottini di Novara e vai! Alla linea si penserà domani.

Lavoravo da quasi un anno, facevo l’impiegata in un’agenzia immobiliare.

Era stato il mio primo impiego, quindi ero orgogliosa di poter sventolare a ogni occasione il biglietto da visita con su scritto “Giuditta – consulente immobiliare”.

Avevo frequentato il liceo artistico, poi mi ero diplomata all’Accademia con una specializzazione in Scenografia. Da subito avevo incontrato grosse difficoltà a trovare un impiego adeguato al mio titolo di studio. Intanto, in attesa del famoso colpo di fortuna che mi consentisse di esprimere il mio talento artistico, avevo trovato lavoro nel settore immobiliare e, dopo un breve periodo di training, ora ero autonoma nel gestire il lavoro.

Quella mattina di febbraio avevo un appuntamento con una cliente che desiderava prendere in affitto un appartamento in pieno centro per uso professionale. Era una giovane avvocatessa che cercava un locale bello, di metratura non troppo grande, centrale e possibilmente vicino agli uffici giudiziari.

Nei mesi precedenti, avevo conosciuto una ricca signora del posto, proprietaria di decine di appartamenti quasi tutti arredati, con la quale avevo stretto dei buoni rapporti di lavoro. La signora aveva manifestato stima nei miei confronti, aveva sperimentato la mia professionalità e mi dava fiducia.

Tra i vari locali disponibili ce n’erano due o tre che potevano rispondere alle esigenze dell’avvocatessa, per cui quella mattina avevo fissato un incontro per farglieli vedere.

Seduta al bar, scaldavo le mani attorno alla tazza della cioccolata che sorseggiavo con calma e vero gusto. Intanto guardavo attorno, osservando l’andirivieni della gente indaffarata a curiosare tra le vetrine o a entrare nei negozi della galleria. Era uno di quei momenti in cui non avevo voglia di abbandonarmi a pensieri difficili, a meditazioni profonde, e sì che, volendo, ci sarebbe stato da pensare a tante cose. Per esempio, avrei potuto pensare a quanto sarebbe stato bello vivere quello stesso momento di relax seduta al bar accanto a una persona amica, con cui scambiare delle confidenze in piena libertà, guardandosi negli occhi, scherzando, magari ascoltando un po’ di musica. Senza differenza tra uomo o donna perché in quella circostanza, sarebbe stato più o meno lo stesso. Ma, uffa! Ora bisognava andare via. Il tempo scorreva inesorabile e dall’agenda elettronica arrivava l’avviso sonoro del prossimo appuntamento.

Mi rivestii indossando tutti quegli strati che mi ero levata per il caldo, andai a pagare il conto e poi uscii.

La gente mi considera una ragazza bella ma non appariscente. Porto i capelli castani, tinti castano chiaro, tagliati a caschetto. Uso un trucco leggero con toni sobri. Di pelle chiara e con grandi occhi color miele, mi trovo tra occhi e naso una manciata di piccole lentiggini che – dicono – mi danno un aspetto birichino. Mi piace molto portare grandi orecchini. Ne ho una collezione enorme. Spesso e volentieri ne acquisto di nuovi per il piacere della novità. Senza spendere grandi cifre, non rinuncio ad acquistarli se vedo qualcosa di interessante in una vetrina o su una bancarella di bigiotterie. Li cambio di frequente, anche durante la giornata se ho occasione di passare da casa nell’intervallo della pausa pranzo. E anche la notte tengo applicati degli orecchini piccolissimi, brillantini impercettibili, di cui non posso fare a meno.

Le scarpe, poi, sono un’altra mia grande passione. Non c’è mese in cui non ne compri almeno un paio, cosicché i miei genitori, non sapendo più dove collocare la gran massa di scatole, mi hanno dato l’aut aut: “O ti calmi con gli acquisti o ti trovi un deposito fuori di casa”.

Sono di statura media e ho una corporatura snella. Come tutte le ragazze della mia età, ho paura di sembrare grassa, non mi piaccio, odio lo specchio, con cui ho un rapporto conflittuale. Quando mi capita di passarci davanti, do una sbirciatina di

sbieco, faccio qualche passo indietro per guardarmi meglio e poi via, disgustata da quell’“orribile” immagine, mi allontano. La stessa cosa succede quando per strada, passando davanti alle vetrine dei negozi, mi imbatto inevitabilmente in superfici riflettenti.

Proseguendo nel mio itinerario di lavoro, quella mattina riuscii con buona dose di fortuna a trovare presto parcheggio in una zona del centro.

Poco più in là mi sembrò di individuare l’auto di una mia cara amica e collega. Mi avvicinai per sincerarmene e, riconosciuti i ninnoli che pendevano all’interno, ne ebbi la conferma. Sì, era la macchina di Silvana, la mia amica del cuore.

Lei svolge lo stesso mio lavoro per conto di un’altra agenzia immobiliare della città. Di cinque anni più grande di me, corporatura sottile, veste bene, sempre elegante, cliente assidua di un noto salone di bellezza, usa spesso pantaloni di pelle nera attillati, stivaletti e una giacca di pelliccia nera. Borsa e portafogli sono sempre firmati, come minimo da mille euro per intenderci. Guida un’auto berlina nera di classe. Usa profumi costosi. Si vede che guadagna bene, anche se il mercato immobiliare, stanco e poco mosso, non consente grandi affari. Sicuramente la mia amica è fortunata oppure ha altre entrate!

Diedi uno sguardo intorno ma non la scorsi, quindi lasciai perdere e andai dritta a raggiungere la cliente con cui avevo appuntamento.

Un’ora dopo avevo terminato il lavoro, avevo fatto vedere due appartamenti e probabilmente avrei concluso l’affare perché uno dei due locali era piaciuto all’avvocatessa. Non restava che attendere la decisione definitiva e la stipula di un accordo da realizzare in sede.

Intanto il cellulare squillava in continuazione. Era l’ufficio che mi chiedeva informazioni o che comunicava nuovi appuntamenti di lavoro fissati per il pomeriggio.

Tra i vari appartamenti che l’agenzia aveva in portafoglio per l’affitto ve n’era uno, di proprietà della famosa signora benestante, che io curavo in modo particolare. Era un bilocale arredato, a piano rialzato di una piccola palazzina elegante, in zona centrale, in condizioni molto buone. Da un cancello alto sulla strada si accedeva a un piccolo giardino che circondava il fabbricato e, saliti quattro gradini, si entrava nel portoncino dello stabile. L’appartamento era subito sulla destra. Non sapevo spiegarmi il motivo per cui ogni volta che entravo in quel locale mi sentivo quasi intimorita. Era tutto molto bello. L’arredamento, sobrio ed elegante, era completo di tutto. I vari inquilini che si erano avvicendati nel tempo avevano tutti lasciato qualcosa, chi una lampada, chi un tappetino scendiletto, chi un intero flacone di bagnoschiuma profumato ai legni orientali. Qualcuno, che doveva essere un raffinato individuo, aveva lasciato nella madia della stanza da pranzo un vaso artistico di vetro con coperchio metallico. All’interno vi era conservato del tabacco, molto buono a giudicare dal

profumo dolce e inebriante che emanava. Ogni volta che entravo in quella casa, sentivo l’esigenza di andare ad aprire quel contenitore e annusare il tabacco. Pur non essendo fumatrice, quell’aroma mi piaceva moltissimo, era rilassante, invitava a sedersi in salotto e respirare profondamente, sino a quando l’incanto venne rotto dallo squillo del telefono che iniziò a farsi sentire diffondendo una vecchia melodia.

Quel pomeriggio, dopo altri due appuntamenti con rispettivi clienti, terminati gli impegni di lavoro pensai di finire la giornata facendo una visitina all’appartamento preferito, quello che esercitava su di me una forte attrazione.

Entrai attenta a non far rumore, tutte le tapparelle erano ben chiuse, abbracciai il vaso del tabacco che portai in camera da letto. Con un lieve tonfo mi levai gli stivali, mi distesi, la gonna leggermente alzata, lasciai accesa solo una debole luce di una piccola lampada sul comodino. Annusavo il tabacco e restavo così immobile a pensare. Il telefono impostato sulla modalità silenzioso continuava a vibrare, ma non me ne preoccupavo. Quel silenzio e quel profumo erano due piaceri a cui non volevo rinunciare. Stetti così circa mezz’ora in pieno relax, abbandonandomi a sogni a occhi aperti, a fantasticherie sentimentali e, lo confesso, anche a tentazioni di autogratificazione, a stento trattenute. Non era la prima volta che succedeva e non sarebbe stata l’ultima. Associato a questo stato d’animo mi tornava sempre in mente un episodio vissuto da bambina. Non ne conoscevo il motivo, ma in ogni circostanza simile mi tornava in mente quando una volta, all’età di cinque o sei anni, dormivo nella cameretta accanto a quella dei miei genitori, allorché in piena notte, mi svegliai. La stanza era buia. Sentivo mamma e papà che parlavano a bassa voce, affannati. Li sentivo ansimare, faticare, non capivo cosa dicessero. Poi dopo un bel po’, tornato il silenzio, mi riaddormentai. Il mattino dopo ricordo che chiesi a mia madre perché lei e papà erano stati svegli durante la notte, ma lei con fare sbrigativo mi rispose che non era successo nulla, che forse avevo fatto un brutto sogno. Mi sentii ingannata, comunque tacqui.

Gli occhi della fantasia mi avevano fatto vedere tante scene proiettate sul soffitto. Scene d’amore prevalentemente, ma non riuscivo mai a scorgere la fisionomia del partner. Mi svegliai da quelle fantasticherie, mi alzai e andai in bagno. La stanza, grande, finemente arredata e dotata di vasca con idromassaggio, era piena di specchi. Ero tentata di spogliarmi e scivolare nella Jacuzzi, ma desistetti, rinviai ad altra occasione, se si fosse presentata. Intanto guardavo infastidita le immagini riflesse negli specchi. Individuavo mille difetti nelle gambe, nelle cosce, nei glutei, sul seno, sul viso. Non mi andava bene niente. Meglio sbrigarsi e andare via.